Cucina Lucana

Basilicata in Cucina. Ricette, Eventi, Interviste

La liquirizia lucana

La liquirizia è una pianta spontanea che prospera lungo le valli fluviali e sui litorali ed ha la particolarità di non essere gradita dagli animali al pascolo. Da questa pianta selvatica si ricava una radice che lavorata fin dall’antichità, viene impiegata nella produzione alimentare e farmaceutica. Attraverso l’originario procedimento di trasformazione della radice si ricava una pasta di colore nero che una volta lavorata a in panetti viene asciugata e commercializzata. In Basilicata la sua presenza è registrata lungo le valli dei prinvipali fiumi della regione (Bradano, Basento, Cavone, Agri e Sinni) e sopratutto lungo la costa jonica. Dai documenti storici sappiamo che la raccolta delle radici spontanee, poi sostituita dalla più evoluta coltivazione, e la loro commercializzazione interessò dalla fine del XVIII secolo e gli inizi del successivo i paesi di Bernalda, Tursi, Montalbano e Nova Siri con ulteriore propagine ai primi paesi della costa jonia calabrese. La produzione era tale da attirare speculatori da altre province che incettavano la materia prima, il cui principale mercato di distribuzione era quello di Bernalda. Ma ancora più interessante è il fatto che nell’allora territorio di Montalbano Jonico era presente una vera e propria struttura produttiva, il così detto ‘concio della liquirizia’ presso le tenute di Policoro. La raccolta della radice avveniva scavando con zappe e vanghe solitamente nel periodo compreso fra i mesi di novembre e marzo quando, perse le foglie, la pianta entra in fase vegetativa e si sviluppano le radici. La lavorazione della radice avveniva, poi, mediate l’utilizzo dei conci mobili che sfruttavano l’energia animale ed erano impiegati sul posto stesso di raccolta della materia prima che, bollita e lavorata, veniva infine trasformata in pannelli di pasta. Con il passaggio dalla produzione per il mercato locale a quelli nazionali ed internazionali e, quindi, con la necessità di una maggiore produzione si iniziò ad utilizzare i frantoi che impiegavano l’energia idrica prodotta dai limitrofi fiumi o canali di derivazione. Il termine ‘concio’ può indicare l’intera struttura produttiva come anche descrivere le proprietà aromatizzanti della liquirizia. Una terza accezione del termine ‘concio’ si riferisce invece esplicitamente al torchio di legno in cui venivano inseriti i fasci di giunco conteneti, in origine, la pasta di olive da spremere. Nel dettaglio dopo la raccolta, la radice veniva tagliata, lavata e quindi macinata nel concio, ottenendone così una prima pasta che veniva poi bollita in calderoni di rame per 12-15 ore. La nuova pasta così ricavata veniva successivamente passata sotto il torchio ricavandone un succo concentrato che veniva nuovamente bollito fino ad ottenerne una pasta. Questa dopo essersi asciugata veniva lavata e a questo punto le donne provvedevano a tagliarla e a darle la tipica forma in pennelli che venivano riposti in casse di legno, inserendo fra uno e l’altro degli strati di lauro. il succo di liquirizia trovava impieghi farmacologici (apparato respiratorio, ulcere, dermopatie, antisettico, antistaminico, diuretico, digestivo e lassativo) e nell’industria dolciaria, dei liquori, nella concia della birra e del tabacco. In Basilicata risultava attivo fra XVIII e XIX secolo il concio della liquirizia di Bernalda di proprietà del principe di Filomarino e gestito dal barone Giuseppe Compagna e Giulio Longo. Accanto a questo vi era, poi, quello di Policoro, attivo certamente dal 1785, di proprietà dei Gesuiti, ma gestito da privati e nel quale veniva lavorata la radice raccolta da Domenico Federici. Nel 1794, cacciati i Gesuiti dal regno, il concio insieme al feudo di Policoro vennero acquistati dai principi Serra di Gerace che portarono avanti l’attività in proprio, apportando modifiche ed innovazioni alla struttura produttiva, fra cui una delle prime presse idrauliche del Mezzogiorno (1840). La liquirizia di Policoro, riconoscibile dal marchio dei Serra di Gerace riconosciuto ufficialmente, veniva esprortata favorevolmente in Germania, Gran Bretagna e in America. Nel 1880 a gestire il concio di Policoro fu la ditta dei fratelli Gullo che dipendeva però dalla nuova ditta conduttrice Padula di Moliterno che aveva rilevato le tenute nel 1877. I principi Serra di Gerace poi vendettero le loro proprietà nel 1893 a Luigi Berlinghieri, unitamente al concio che proseguì la sua attività anche nei primi decenni del XX secolo.

(Articolo in corso di ultimazione)

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Basilico

Masənəkèləvasələkòyə, wasənəkòləbazələkòyə, bwaziləkəvasənəkòlə sono le forme che si registrano nei centri della Basilicata per indicare questa pianta, vd. R. Bigalke,Dizionario dialettale della Basili­cata, Heidelberg, Carl Win­ter Universitätsverlag, 1980, alle rispettive voci.
Il dato dialettale testimonia la notevole incidenza del ricorso alla fantasia po­polare per poter completamente definire il percorso, anche fonetico, di molte parole nella storia di una lin­gua e delle sue varietà locali. I sostantivi basinicolevasenicole masinicoledenunciano in molti dialetti italiani meridionali il valore del corrispondente letterario ita­liano basilico. Parole che si qualifi­cano in maniera traspa­rente come riflessi del lat. basilicu(m), mor­folo­gicamente aggettivo, che, a sua volta, riposa sul prestito dal greco basilikovn forma neutra so­stan­tivata del medesimo ag­gettivo rilevabile nella denominazione ellenica completa della pianta: basilikhv poi`a; e se il la­tino adegua nell’accatto anche la posizione dell’accento, regolandola sulle norme che ne indivi­duavano la collocazione (la famigerata ‘legge della penul­tima’), e la trasmette alla lingua lette­raria italiana, i dialetti meridionali interessati appaiono invece in­fluenzati dalla ori­ginaria pro­nuncia greco-bizantina vasilicò: proprio questa forma si era diffusa in gran parte del meri­dione della penisola e quando la sua trasparenza semantica gra­dualmente venne a consumarsi, l’istinto paretimologico dei parlanti cercò di recu­perare la struttura fone­tica del termine, se­manticamente deprivato, col richiamo e il raccostamento, evocato dalla finale accentata, alla struttura prosodica del nome per­sonale Nicòla e al culto dell’omonimo santo, unendolo alla reinterpreta­zione della prima parte del fitonimo come vaso; la notevole diffusione del culto di San Ni­cola, soprattutto in Italia meri­donale, e il suo invocato soccorso taumaturgico trova­vano conferma nelle ricono­sciute proprietà alimentari, medicinali e cosmetiche della pianta, dichia­rate nella sue denominazione greca (basilikovn da basileuv” ‘re’) e nel corrispon­dente calco la­tinoherba regia, a testimonianza della indiscusssa e ricer­cata applicazione dell’essenza vege­tale in molteplici occasioni. Quanto all’alternanza masənəkòlə / vasənəkòlə obbasənəkòlə, è da cor­relare con il trat­tamento della conso­nanti la­biali sonore iniziali  b/v, assimilabili per effetto del beta­ci­smo meridionale ita­liano, che determina in alcuni dialetti del Sud della penisola, per esempio, anche məni’ per ‘venire’, vd. G. Rohlfs,Grammatica sto­rica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 voll.,Torino, DEinaudi, 1963, vol i – Fonetica, pgff. 157 e 160.
Il fitonimo in questione  ispira tipi nominali cospicuamente diffusi nella onomastica personale italiana in tutto il territorio nazionale, ad esclusione della Calabria e con maggiori concentrazioni nel settore nord-occidentale della penisola, con le varietà:BasilicoVasilicoVasilicòBasanico.

Emanuele Giordano

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